Centottanta tonnellate di romanità. Se vai in fissa per Roma e i suoi abitanti giratela d’estate, quando la città è deserta, imbambolata dalla canicola e ravvivata per lo più dal frinire delle cicale e dallo sciabordio dell’acqua sgorgante dai nasoni. “Salute capo. Che lei sappia, no? In questa zona è mai esistita una tavola calda tipica, vera, dove si mangiava tanto, bene e a poco prezzo? Che ne so, un’hostaria a conduzione familiare, un buiaccaro di riferimento, l’intramontabile zia Rosetta dietro i fornelli conosciuta da tutto il circondario, la classica trattoria zozzona ma di sostanza… insomma, ci siamo capiti”. E puoi giurarci che l’interpellato, con l’orgoglio drento ar petto, la gestualità caricaturata all’ennesima potenza e lo sfoggio di un italiano forbito ma sovraccarico di romanaccio, ti rivelerà di un tempo in cui proprio qui a due passi esisteva l’Eden popolare dell’abbuffata sana e genuina, sei tavolini fra quattro mura impregnate di profumi, leccornìe e spensieratezza. Di norma, questo genere di resoconti epici va a cozzare con un precetto da me formulato all’età di sedici anni, quando ogni qualvolta non partecipavo a una festa di scuola, i miei amici favoleggiavano gesta scellerate o avventure mirabolanti accadute con centomila ragazze. Poi alla festa successiva, con gli occhi sognanti e ricolmo di aspettative, venivo travolto dal senso pratico della vita col suo abituale sfoggio di noia mortifera. Non accadeva mai nulla e i miei amici a spiegarmi accalorati che i miracoli umani avvenivano sempre quando mancavo io. A ogni modo, il succo della mia massima giovanile recitava più o meno così: Con questi presupposti, è facile intuire quanto rilievo dia all’esposizione verbale dei miei interlocutori. E non basta rintanarsi nella capacità oratoria o ricorrere al melodramma coi lucciconi agli occhi per enfatizzare il tempo che fu. Motivo di tutta questa pappardella speziata d’invettiva, è la difficoltà di affidarsi a un luogo d’aggregazione cibaria (pizzerie per prime) che goda di longeva autorevolezza e di una costanza qualitativa verificata volta per volta. Prendiamo una rinomata pizza fritta in un vicolo di Napoli, dorata nell’olio bollente (e ancor prima nella ‘nsogna) da più di un secolo. Questa impressione da posto autentico l’avverto tutte le volte che bazzico 180g Pizzeria Romana. Giovane realtà gastronomica in perfetta simbiosi col suo animato e gigantesco quartiere d’appartenenza. Mirko Rizzo - che per stazza e indole è un felice ibrido tra Gabriele Bonci (nella passionalità delle sue gesta) e Stefano Callegari (nei condimenti elargiti in abbondanza) - ha prima sgranchito le articolazioni con la pizza al taglio di Pommidoro Pizza & Fritti e successivamente ha potenziato i muscoli (soccorso ai bilancieri dal promettente Jacopo Mercuro) con 180g, rivisitando in chiave moderna la tanto mitizzata pizza tonda alla romana, così facile da favoleggiare, ma difficilissima da realizzare a regola d’arte. In questa versione attualizzata, il mattarello è riposto in credenza e il panetto da stendere viene adagiato su una generosa montagnola di farina di semola, lavorandola di polpastrelli con la stessa delicatezza concessa alla stesura di una pizza alla pala. A fare da contorno a questa spontanea scenografia, un ambiente essenziale e una convivialità umana all’ennesima potenza, più supplì, buona birra e baccalà che ti riconciliano con la caciara de ‘sta zozza Città Eterna. E visto che ho cominciato traendo spunto dal cinema, concludo dichiarando che se i 21 grammi della pellicola di Iñárritu sarebbero il “peso ipotetico” dell’anima al momento di lasciare il corpo, i 180g di Rizzo/Mercuro sono il “peso provato” che travolge l’appetito e definisce la gustosa mole di una scrocchia romana fatta come si deve. Daje! Pezzo dedicato a Davidetex Brambilla, sopraffino esteta della panificazione domestica (da dove chiunque ha cominciato). Kurando. Gennaio 2019. Giano Zafferallo. Gambero Bronx. |
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