MARTYRS
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REGIA: Pascal Laugier
CAST: Morjana Alaoui, Mylène Jampanoï,
Catherine Bégin, Robert Toupin,
Patricia Tulasne, Juliette Gosselin
2008 Francia/Canada 97m
HORROR
Elvezione
Una zona industriale desolata, abbandonata, in rovina.
Improvvisamente una bambina, malconcia e sanguinante, esce da un edificio e scappa, urlando e piangendo.
Viene quindi ospitata presso un orfanotrofio, mentre le autorità cercano di capire cosa sia successo: era tenuta segregata in una stanza, veniva nutrita a stento da degli aguzzini non identificati che la torturavano quotidianamente.
In orfanotrofio Lucie stenta a recuperare l’equilibrio mentale, ha continui incubi, è perseguitata da una folle creatura selvaggia e non socializza con nessuno, sviluppando una preoccupante tendenza all’automutilazione.
L’unica bambina che riesce a penetrare questo isolamento è Anna, che in breve tempo diventa la migliore amica di Lucie.
Dissolvenza e balzo in avanti di 15 anni.
Una tranquilla villa fuori città, con una famiglia modello che è riunita a tavola. Suonano alla porta, il capofamiglia apre, Lucie entra in casa e inizia a sterminare tutti quanti, convinta di aver finalmente identificato i suoi aguzzini.
Anna attende sue notizie, pronta ad aiutare la sua amica in ogni frangente e decisione.
È solo l’inizio, l’allucinante e ansiogeno inizio di un incubo che per ogni minuto che passa compirà un ulteriore, devastante giro di vite, fino all’insostenibile finale…
Nei titoli di coda di Martyrs, fuor di dubbio il film horror più importante degli ultimi anni, oltre a ringraziare Karim “Subconscious Cruelty” Hussain, viene specificata una dedica a Dario Argento.
Supponiamo che l’autore si riferisca al lucido architetto della violenza degli anni settanta e non al pallido fantasma di se stesso che continua ad ammorbarci da decenni con una serie di film uno più brutto dell’altro.
Ma se anche riferendosi al Dario Argento del periodo d’oro, la dedica sbaglia il bersaglio. Questo capolavoro, che suggella una volta per tutte la leadership mondiale della Francia nell’horror, dovrebbe essere idealmente dedicato a Clive Barker.
Già, perché Martyrs supera a 180 km/h l'epopea hellraiseriana, e la supera a destra, con una manovra tanto spericolata quanto vietata.
Pascal Laugier approfondisce, migliora, esaspera, rende infine definitive le intuizioni barkeriane, sovvertendole e politicizzandole, senza mai far pesare o prevalere il sottotesto sul testo.
Testo che è, senza se e senza ma, il più atroce Libro di Sangue che sia mai stato scritto in tempi recenti, una terribile, angosciante, asfissiante discesa al paradiso, una discesa che riserva continue svolte e cambi di velocità in un gioco a incastri perfetto, nel quale ogni nuovo innesto, ogni nuovo cambio di paradigma getta luce e nobilita quanto accaduto in precedenza.
Può essere vero, anzi è sicuramente vero che molti cineasti orientali piazzano su grande schermo una serie di atrocità più estreme di quanto vi aspetta in questa pietra miliare, ma vuoi per la distanza socioculturale, vuoi per una assuefazione ai loro estremi, vuoi ancora per una ironia e grottesco sempre pronti a far capolino, la violenza e la potenza delle loro visioni ne esce diluita, alterata, attutita.
Cosa che non avviene in questo manifesto contro il postmodernismo, in questo deserto di sangue nel quale non è ammessa, dal primo all’ultimo minuto, la minima emozione positiva, il minimo accenno di ironia o ammiccamenti, la più flebile speranza.
Pugni in pancia e in faccia, chiodi in testa, scuoiamenti, vomito, piscio, sangue e lacrime sono riversati a fiumi con una serietà assoluta, con una potenza visionaria che non offre allo spettatore impreparato il minimo appiglio per accennare il solito sorriso risaputo e, girandosi verso i suoi amichetti cinefili, confortarli e rassicurarsi con qualche battutina.
Quando i calci nello stomaco si susseguono a un ritmo così frenetico, diventa difficile rifiatare per raccontare qualche barzelletta, rimane solo da gemere e continuare a guardare fino alla fine.
E la fine, una volta tanto, non lascia scontenti, anzi è il perfetto epitaffio, la punch line ideale, l’unica conclusione possibile per questa Divina Commedia della Zona Negativa.
Non si può più uscire a riveder le stelle, il Primo Motore si nasconde sottoterra, negli ingranaggi della Configurazione del Lamento ed esige un sacrificio più significativo che una passeggiata all’Inferno.
Sono così tanti i momenti in cui Martyrs muta pelle che, prima della trasfigurazione finale, non si ha mai idea di che razza di animale possa uscire da questa sublime, dolorosa, doverosa incubazione.
Dal torturato bruco ansiogeno alla crisalide-vendetta fino alla mistica farfalla di sangue, l’occhio non riesce a staccarsi anche se dovrebbe, moralmente, pena un certo grado di adesione e consenso, anche (soprattutto) involontario, al progetto elitario, da spietata Camarilla dipinto da Laugier.
Dovremmo uscire dalla sala, spegnere il televisore, chiudere gli occhi, ribellarci in qualche modo.
E invece rimaniamo incollati allo schermo, il nostro sguardo che cerca lo sguardo della povera, sventurata, fortunatissima Anna per cercare di capire, per cogliere l’attimo definitivo e fondante.
Dio e la borghesia, le due idre che pensavamo (speravamo) di aver sterminato senza in realtà aver mai agito in tal senso, fanno rispuntare le loro maledette teste e sono l’ideale vettore del dolore, il definitivo agente della violenza, il supremo potere in grado di decidere e somministrare, l’autorità autogiustificante che può e quindi fa.
Se riuscite a fare le debite proporzioni, capirete che stiamo giocando dalle parti di Salò, per poi deviare altrove.
E disperate, voi che ancora avete qualche speranza, perché non ci sono entità o enti superiori cui riferirsi o appellarsi.
Che Pascal Laugier riesca ad amministrare tale materiale con una consapevolezza e una maturità di livello così alto, dopo l’interessante ma irrisolto e discontinuo Saint Ange lascia basiti.
Il suo è il linguaggio secco, robotico, programmatico e programmato, visionario e inesorabile di una Flannery O’Connor o, per altri versi, di una Agota Kristof, un atroce caterpillar che non ammette rallentamenti o deviazioni di sorta e che, se lo seguirete, vi porterà ad accettare il sublime che si confonde con il terribile, la tortura e la prigionia che vi libereranno, la violenza e il dolore che vi trasformeranno in oltreuomini.
Anzi, in oltre-oltreuomini.
Un Grande Fratello colorato di sangue invece che di grigio, una Arancia Meccanica che vi lacererà le palpebre tanto ve le terrà spalancate, un Vicious Cabaret che danza al suono del Paradigma di Mishima.
Non è l’Anarchia che libera e riempie di gioia l’uomo, ma il più cattivo, spietato, indifferente dei talloni d’acciaio.
Tutta la recente filmografia francese è stata una lucida, feroce traiettoria che ha portato a questo altissimo esito, a questa pellicola che, in un altro tipo di mondo, con altri tipi di percezioni e con uno studio più serio della materia, segnerebbe un punto di non ritorno per l’horror e un capitolo con il quale qualunque autore che voglia dialogare con il genere dovrebbe confrontarsi a fondo.
Ma questo è il mondo di Marcus Nispel e di Zack Snyder, del metacinema e dei fan, delle citazioni e delle seghe: i discorsi seri e la lucidità non lo abitano e le rare volte che compaiono fanno pochissima presa.
E si corre davvero il rischio che Martyrs faccia poca presa: verrà metabolizzato, remakizzato, imbellettato, accorpato allo Splat Pack e al genere torture porn, nullificato proprio dai poteri di cui discute in modo così critico.
Si corre il rischio che l’ennesimo Roth di turno, non capendo un beneamato cazzo, pensi di replicarne in qualche modo contenuti e modalità, finendo con il girare una confusa e approssimativa explo-pornografia, elemento DEL TUTTO assente da Martyrs.
Ovviamente un film del genere non lo si filma così lucidamente, con tale potenza, senza il superbo apporto di ogni elemento di cast e crew, dalle due magnifiche, bellissime e bravissime attrici a un uso del sonoro che meriterebbe una recensione a parte, dal make up di Benoît Lestang fino al tappeto sonoro dei Seppuku Paradigm, dalla buona (ma certo non perfetta) sceneggiatura (del regista stesso), così parca di parole specie nell’ultima parte fino ovviamente alla fotografia esasperata e ferrosa di Stéphane Martin e Nathalie Moliavko-Visotzky.
E senza mai dimenticare l’aspetto tecnico che brilla e sovrasta ogni altro, ovvero il montaggio killer di Sébastien Prangère, che è quasi sempre preciso al milionesimo di secondo, innaturale.
Tutto questo fornisce alla regia di Laugier, così attenta ai particolari, così ben disposta a far parlare hitchcockianamente/argentianamente gli oggetti più che le persone, l’ideale campo di battaglia per mettere in scena un film che non è possibile, non è davvero possibile ignorare se si vuole discutere del futuro di questo genere.
Capolavoro, da vedere e rivedere senza tregua, ripetendo anticravenianamente a se stessi: This is NOT a movie, this is NOT a movie!