PAURA E DELIRIO A LAS VEGAS

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REGIA: Terry Gilliam
CAST: Johnny Depp, Benicio Del Toro,
Ellen Barkin, Gary Busey, Cameron Diaz,
Craig Bierko, Tobey Maguire,
Christina Ricci, Harry Dean Stanton SOGGETTO: Tratto dal romanzo
"Fear and loathing in Las Vegas"
di Hunter S. Thompson
SCENEGGIATURA: Terry Gilliam,
Tony Grisoni, Tod Davies, Alex Cox
MUSICA: Ray Cooper
1998 Stati Uniti 119m
GROTTESCO




Marcone (in Benjamenta) 

Si pecca d’ingenuità ritenendo che tutte le pellicole siano composte di sola celluloide.
POSOLOGIA: Paura e delirio a Las Vegas è un film che viaggia su lunghe 'strisce' di cocaina, anfetamina, LSD, mescalina, etere, alcool, adenocromo. Da consumarsi rigorosamente per via endovenosa (la più rapida, efficace e cruda).
Vietato (se non addirittura superficiale) affermare che il film 'parla di droga'. In realtà è la droga stessa a farsi sapientemente film. E non si tratta di una sterile apologia della trasgressività (tipo: 'droga è figo/bello/alternativo'), né di un banale polpettone generalizzato (tipo: 'la droga simbolo di qualunque disagio') ma di una miscela ipno-esilarante purissima, preparata ad arte da un Terry Gilliam in grande spolvero. E dal pusher/regista il prodotto eredita il gusto per i colori vivaci e psichedelici, nonché la presenza maniacale, in ogni inquadratura, di oggetti e dettagli, che conferiscono il giusto senso di claustrofobia, personalità ed un timbro inconfondibile.

Al contrario di quanto s’immagini, durante i 118 minuti di eccessi tossici ed etici che il film sciorina a ritmo incalzante, non è minimamente celebrato l'autolesionismo dei protagonisti bensì la devastante sconfitta del blasonato ‘sogno americano’, che all'alba della guerra in Vietnam ha portato le ambizioni di un'intera generazione (la beat-generation) ad infrangersi irrimediabilmente ed i suoi reduci ("generazione di storpi permanenti") ad inseguire altrove, seppure con gli stessi mezzi, la "disperata supposizione che qualcuno custodisca la luce alla fine del tunnel".
‘Paura’ e ‘disgusto’ (secondo la traduzione letterale del titolo del libro di Thompson da cui il film è tratto) restano a colmare il fondo di coscienze oramai svuotate e disilluse in quei pochi istanti di lucidità che vengono loro concessi. Las Vegas ("città dalla mentalità così grossolanamente arretrata che spesso un vero crimine passa inosservato") si ritaglia invece il ruolo di co-protagonista incarnando ottimamente l'ipocrisia del sogno americano.

Benicio Del Toro/Dr. Gonzo ("uno dei prototipi di dio") e Johnny Depp/Raoul Duke ("uno sballato in un mondo di sballati"), autori di un'interpretazione memorabile, danno sostanza a due personaggi assolutamente credibili, strampalati e versatili, così lontani dall'essere pura macchietta o caricatura e talmente fusi col contesto narrativo/espressivo da rendere inutile qualsiasi schedatura dicotomica, anche se circostanziale, del tipo: Buoni o cattivi? Lucidi o allucinati? Ironici o seri? Comici o drammatici? A tutto vantaggio dello spettatore che può abbandonare ogni pulsione classificatrice e godersi appieno la geniale visionarietà di situazioni e dialoghi.
Uno sketch su tutti:
Raoul (fissando, in pieno trip, i riflessi dello schermo televisivo sul pavimento): "C'è una specie di serpente elettrico che si dirige dritto verso di noi!"
Dr. Gonzo: "Sparagli!"
Raoul: "Non ancora, voglio prima studiare le sue abitudini"

Anche se il premio più appropriato sarebbe una stella psichedelica, ci si può accontentare di quella d'oro.
Un saluto a tutti i cinetossicodipendenti.



il Saggio 

“Chi fa di se stesso una bestia si sbarazza della pena di essere un uomo”.
Inizia con questa promessa il film di Gilliam. La ricerca della bestialità per sbarazzarsi dalla frustrazione per il tramonto del sogno americano, miraggio quest’ultimo, figlio dell’imploso movimento libertino anni ’60…”l’onda che si è infranta ed è tornata indietro”. A mio parere, la pellicola è un esempio di prodotto soggetto al facile equivocare.
L’equivoco insito nell’impalpabile sogno americano appunto e nel falso misticismo al quale si rifanno i primi consumatori di acidi, i quali, in sintonia con papà Hofmann(autore de Percezioni di realtà e I Misteri di Eleusi editi da Stampa Alternativa), cercavano una verità attraverso l’amplificazione delle percezioni, nella speranza che qualcuno potesse custodire la luce alla fine del tunnel. Gilliam non promuove l’uso della droga, ma lo narra alla sua maniera, visionaria e grottesca, vissuta in claustrofobiche stanze d’albergo fuori dal tempo. E lo incastra in un contesto sociale destabilizzato dalla guerra del Vietnam e dall’inconsapevole schiavitù al consumismo. Simbolica la riflessione di Duke quando, alle 4:30 di domenica mattina, vede uomini, “caricature di un qualsiasi venditore di automobili di Dallas” che provano a “ingroppare il sogno americano giocando al casinò”.
Incentrare l’attenzione soltanto sulle incredibili esperienze vissute dai due drogati e impenitenti protagonisti, vuol dire peccare banalmente di confusione sui moventi della vicenda.
La paura dell’attualità; il delirio come rimedio e fuga dalla realtà esistente; Las Vegas quale simbolo di un’America commerciale e decadente.
Ottimo Depp, soprattutto nella mimica. Irraggiungibile Del Toro…che poi otterrà un oscar con Traffic, ma che solo in Paura e delirio esprime al massimo il suo potenziale. Un istrione perfetto. Mitologica la sua discesa dalla giostra in rotazione del Circo Bazooko…imperdibile!
Stella d’oro su tutta la linea, anche perché questo film mi ha regalato un’altra certezza: quando, durante la proiezione della pellicola, un gruppo di spettatori si alza ed esce dal cinema mentre tu sei lì a godere con le lacrime agli occhi di fronte alle immagini…beh, nove volte su dieci il prodotto cinematografico che stai vedendo è un capolavoro!



Fabbione (in Dottor Kurando) 

Ero in compagnia del Saggio quella sera, su una poltrona di legno di un cinema di periferia a godermi la pellicola in acido dell’artefice di Brazil e ricordo ancora l’effetto alterato che provocò nelle menti dei pochi astanti. Per noi fu un tripudio lisergico e le sostanze disciolte nelle inquadrature aumentarono la consapevolezza di trovarci di fronte a un film di culto, per altri fu invece un prodotto senza arte né parte, tanto da spingerli ad abbandonare anzitempo la sala cinematografica.
Se siete mossi dal desiderio di proseguire nella lettura, vorrei riportare uno stralcio d’intervista rilasciata dal regista stesso - effettuata a Bologna nella prima edizione del Future Film Festival a cura di Mario Gagliardetto - e che meglio di altre parole spiega i motivi che lo hanno indotto a trasformare in immagini un romanzo pressoché inadattabile.
Alla domanda “Mi è sembrato che molti spettatori e molti critici, parlando di Paura e delirio a Las Vegas, abbiano focalizzato la loro attenzione sulla questione della droga ...”, il cineasta così risponde: “Io non credo che il film riguardi in senso stretto la droga. Molti mi hanno chiesto se ho mai fatto esperienze con gli allucinogeni: il fatto è che io non sono mai stato un sostenitore degli stupefacenti, né tantomeno ho inteso esaltarli. Paura e delirio a Las Vegas non è un film sulla droga, ma sulla responsabilità individuale; la droga, nel film, è una metafora. Quello che più mi ha appassionato del romanzo di Hunter S. Thompson è lo stato mentale dei protagonisti: due personaggi che apparentemente si imbottiscono di sostanze stupefacenti per puro divertimento, ma che in realtà si stordiscono per la disperazione e la rabbia. Spingendosi oltre i limiti, Duke e Gonzo cercano in un certo senso di autopunirsi, mossi dalla consapevolezza che il mitico Sogno Americano di cui sono alla ricerca non esiste più e si è tramutato in un incubo tremendo. Las Vegas non è che il simbolo macroscopico di quel Sogno infranto, di tutte quelle speranze che sono state spazzate via alla fine degli anni Sessanta. Las Vegas rappresenta in pieno un' America che ha assistito alla morte dell'utopia ed è stata stretta nella morsa del consumismo e del materialismo. Dopo il 1971 non è rimasto più nulla degli ideali di un'intera generazione mentre sono proliferati ipocrisia e conformismo.
Mi è capitato spesso di pensare che, al tempo in cui scrisse il libro, Hunter Thompson avrebbe potuto benissimo trovarsi in Vietnam come corrispondente di guerra ed essere costretto a sopportare la tensione derivante dai combattimenti e dal pericolo costante di essere colpito da bombe reali. Invece si ritrovò a fare il corrispondente sportivo, si recò a Las Vegas e decise di “bombardarsi” il cervello con la droga: in definitiva, dal punto di vista psicologico, si tratta dello stesso tipo di bombardamento. Thompson scelse volontariamente di fare quel tipo di esperienze, si mise sul “filo di un rasoio” e cercò di descrivere ciò che accadeva intorno a lui, realizzando così il suo anarchico e personalissimo reportage giornalistico. Era questo che mi affascinava: riprodurre fedelmente le esperienze psichedeliche di Thompson così come sono descritte nel suo romanzo. É come se avessi infilato delle macchine da presa nel corpo degli attori tentando di restituire in modo dettagliato e preciso quegli stati alterati della coscienza. […]”

A parere del sottoscritto sono da ricercare tra queste righe i motivi che quella sera spinsero gli spettatori ad allontanarsi dal cinema: una volta immersi nello sballato caleidoscopio della vicenda, hanno chiuso le porte alla percezione, valutando il film con eccessiva lucidità mentale. Tanto per intenderci, è come imporre l’assunzione di un francobollo di LSD ad una persona che ripudia le droghe per principio. Al contrario, il trucco per restare abbacinati dalla geniale poetica di Gilliam è fingere di trovarsi al parossismo di un’ipotetica crisi d’astinenza: come il tossico si concede anima e corpo agli stupefacenti, così lo spettatore deve lasciarsi annientare dalle psichedeliche vicende di Raoul Duke (Depp) e il Dr. Gonzo (Del Toro).
Solo in queste modalità si possono gustare appieno i cavalli di battaglia del creativo cineasta: il chiodo fisso per gli spazi angusti e traboccanti oggetti di varia grandezza e natura (già osservati nel capolavoro Brazil), utilizzo smodato e vertiginoso della macchina da presa (anch’essa probabilmente inoculata di qualche strana polvere), sprazzi di visionarietà raggiunti da pochi altri autori (vedi Jodorowsky, Lynch e a piccole dosi Ferrara e Bergman) e un’eccezionale abilità nello sfruttare all’osso le capacità degli attori. Impareggiabile la performance di Benicio Del Toro, appositamente ingrassato di circa diciotto chili e da antologia le movenze disarticolate di Johnny Depp, somigliante in tutto e per tutto allo scrittore Hunter S. Thompson.
Tra le sequenze da incorniciare: senza esitazioni direi l’intero lungometraggio, grazie all’altalenante stato di coscienza dei due ‘sbomballati’ eroi (quando Gonzo è in preda ad una crisi mistica a sfondo omicida, Duke/Thompson cerca come può di placarne le ire e quando quest’ultimo cede alle spaventose visioni che ininterrottamente lo assediano, l’avvocato - con una chioma che vive di vita propria - tenta di normalizzare la condizione ipertesa del suo compagno di droghe).
Scene da PLAY e REWIND all’infinito, in ordine di apparizione: le certezze di Benicio Del Toro nell’ascensore, infatuato all’istante della bella giornalista (Cameron Diaz), il loro ingresso deformato al Circo Bazooko dopo aver inalato dosi smisurate di Etere e per concludere, sempre Gonzo da protagonista, il comportamento ‘fuori dal tempo’ e l’acquisto del Meringato al Limone in uno squallido bar alle porte di Las Vegas.



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Un ringraziamento a Fabio Calafato per l'abile ruolo di mediatore e Marco Petrilli & Alessandro Cudia per averci messo a disposizione il loro scritto.


Paura e delirio a Las Vegas:
dal romanzo allo schermo, l’incontro tra storia individuale e Storia collettiva

Marco Petrilli                                                             Alessandro Cudia

matr. 9900073-DAMS                                                    matr. 9900230-DAMS


(Corso di Semiologia del cinema e della televisione     

Prof. Gian Paolo Caprettini - anno accademico 2002/03)

Introduzione

Questa relazione intende analizzare due aspetti di particolare rilevanza semiotica presenti nel film “Paura e delirio a Las Vegas” di Terry Gilliam. In prima istanza verrà affrontata la trasposizione linguistica e narrativa del romanzo originale nella pellicola, evidenziando la peculiarità di questa operazione.Successivamente si passerà all’osservazione del continuo intreccio, all’interno del film, tra Storia collettiva e storia individuale e della funzione svolta da questo “meccanismo”.

Il romanzo

“Paura e disgusto a Las Vegas” di Hunter S. Thompson venne pubblicato per la prima volta a puntate, nel 1971, sulla celebre rivista musicale americana “Rolling Stone”, ottenendo subito un enorme successo sia di pubblico e di critica. A contribuire alla sua affermazione fu la forza realistica, ma anche visionaria, con cui l’autore aveva ritratto le “avventure” dei due protagonisti, due reduci ormai alla deriva della “hippie generation”. Nella storia, Raoul Duke , improbabile giornalista sportivo ma, soprattutto, alter ego di Hunter S. Thompson, e Dottor Gonzo, poco credibile avvocato di origini samoane, si recano, agli inizi degli anni 70, a Las Vegas per seguire una corsa motociclistica. Il loro vero interesse è, però, quello di compiere, come ricorda più volte Raoul Duke, voce narrante della vicenda, un “viaggio al centro del sogno americano” ovvero “un grossolano tributo fisico alle fantastiche possibilità di vita in questo paese”. E non è un caso che i due si rechino proprio a Las Vegas, il più evidente e controverso esempio di “ american way of life”. Inoltre, i due protagonisti hanno con loro un’imponente scorta di droghe che dovrebbe aiutarli nella comprensione della cultura americana. In realtà, tutte queste sostanze li porteranno a vivere esperienze ora paradossali ora terrificanti, nelle quali il mondo reale risulterà solo un ricordo lontano.

All’interno della struttura narrativa rivestono un ruolo molto importante le continue riflessioni di Raoul Duke sulla fine dell’ideologia hippie, alla quale, anni prima, aveva aderito. Da questo punto di vista, il protagonista appare estremamente deluso e pessimista, giungendo alla conclusione che tutti gli ideali che avevano animato gran parte della gioventù americana degli anni 60, erano stati dimenticati in fretta, anche a causa del massiccio uso di droghe da parte dei membri del movimento, una pratica vista come mezzo veloce ed “economico” per arrivare alla felicità. Ricorrenti sono, anche,le riflessioni sulla “società” di Las Vegas, città assunta a simbolo del consumismo e del conformismo più esasperati. In particolare, vengono messe in risalto la distanza e l’incomunicabilità tra i due protagonisti, ridotti ormai ad “aborti” della rivoluzione hippie, perennemente sconvolti dalle droghe più disparate, e le migliaia di persone che affollano i casinò e le strade della città, viste come esemplificazione dell’ “americano medio” più retrogrado e tradizionalista, rimasto indenne dalle trasformazioni culturali verificatesi nel dopoguerra. Las Vegas, inoltre, viene vista come capitale della stranezza, della bizzarria architettonica più spinta, della tendenza alla sovrabbondanza ed al kitsch più estremo tipici del capitalismo più sfrenato e volgare.

Dal romanzo al film: trasposizione linguistica e diegetica

Nel passaggio dal libro allo schermo non si assiste ad alcuna mutazione rilevante né a livello linguistico né a livello diegetico. Il regista e gli sceneggiatori rimangono aderentissimi al romanzo di Thompson: tant’è che in alcuni casi è riscontrabile la trascrizione integrale di dialoghi e descrizioni. In realtà, alcune parti del racconto originale vengono “tralasciate” , anche se le differenze rispetto al testo sono comunque di poco conto. Lo stesso Terry Gilliam, regista e co-sceneggiatore del film, in un’intervista apparsa sul numero 16 di “Amarcord”1, ammette come, lui e gli sceneggiatori, ”avvicinandosi le riprese”, abbiano scelto di “tornare su Thompson e trasporlo il più fedelmente possibile”. Così, sia il romanzo che la pellicola, sono caratterizzati da un linguaggio narrativo e descrittivo estremamente espressivo e vitale, più simile al parlato, un linguaggio in cui dialoghi ben congeniati e graffianti si alternano a descrizioni realistiche ma, contemporaneamente, visionarie, un linguaggio che rifugge da modelli letterari “alti”, che guarda attentamente al presente, sovente deformandolo grottescamente. Da questo punto di vista risultano molto significative le metafore e le similitudini usate spesso e in modo “tagliente”, che coinvolgono uomini politici e sportivi, sostanze stupefacenti e modelli di motociclette ed automobili2. Anche la diegesi viene ripresa come appare nel romanzo, interrotta da flash-backs atti a “stordire”lo spettatore, avvicinandolo al perenne stato di alterazione dei due personaggi. Persino la “mise en scene” e lo stile visivo adottati dal regista si riferiscono fedelmente all’opera di Hunter S. Thompson, rendendo con molta efficacia persino le allucinazioni che coinvolgono Raoul Duke e Dottor Gonzo. Per rendere ciò Terry Gilliam si affida ad una fotografia che privilegia le luci artificiali, spesso intermittenti o multicolore, a volte abbaglianti a volte tenui, una fotografia che utilizza colori accesi e cangianti. Inoltre, il regista gioca con abilità sul contrasto tra il deserto, visto come luogo aperto ed assolato, e la città di Las Vegas, che appare tentacolare e “notturna”, illuminata solo dalle migliaia di luci dei casinò. Questo contrasto è reso ancora più pronunciato dallo svolgersi di gran parte delle vicende nelle camere d’albergo in cui i due protagonisti soggiornano, ambienti claustrofobici, disordinati, spesso bui, rischiarati a stento dalla luce di poche lampadine. È importante notare come Terry Gilliam, sempre nell’intervista apparsa su “Amarcord”3, alla domanda ”Ti hanno influenzato i disegni di Ralph Stermann, presenti anche nell’edizione italiana del libro?”, risponda “I suoi disegni sono parte integrante del libro e quindi ci hanno chiaramente influenzato (...) abbiamo cercato di cogliere l’essenza del disegno”, rendendo così inequivocabile la scelta di aderire al testo il più possibile anche da un punto di vista visivo. Persino la colonna sonora viene “ripresa” attentamente dal romanzo:i due protagonisti ascoltano oppure cantano gli stessi pezzi citati nell’opera di Thompson.

In definitiva, “Paura e delirio a Las Vegas” risulta un caso particolarmente raro di adattamento fedele di un film da un romanzo. Infatti, buona parte delle pellicole tratte da testi preesistenti presentano o a livello diegetico o a livello linguistico, spesso anche a livello semantico, variazioni ora minime ora rilevanti. Volendo fare un esempio noto si potrebbe citare “Apocalypse now” di Francis Ford Coppola, film tratto da “Cuore di tenebra”, racconto lungo di Joseph Conrad. Nella pellicola l’azione viene spostata dall’Africa coloniale ottocentesca del racconto al Vietnam devastato dalla guerra tra americani e viet-cong: ciò comporta una notevole rielaborazione sia della struttura narrativa, con l’aggiunta anche di episodi inesistenti nella trama originale,che di quella linguistica, la quale risulta evidentemente modernizzata. Anche a livello semantico si può notare un notevole “arricchimento” della vicenda. Nel film di Terry Gilliam, invece, ciò non avviene ed i motivi sono principalmente due: la completa adesione al messaggio presente nell’opera di Thompson da parte di regista e sceneggiatori ed il desiderio di raggiungere lo “stesso” pubblico del romanzo. Più precisamente, l’analisi triste ed impietosa della fine della “hippie generation” e degli ideali utopistici che sembravano, negli anni 60, dover prevalere sulla “vecchia” società americana, viene fatta propria dal film, che la ripropone con estrema convinzione. Quando, nella pellicola, Raoul Duke, ricordando gli anni dell’impegno giovanile, riflette con amarezza che “sono passati 5 anni...6, sembra una vita, quel genere di apice che non tornerà mai più” e poi che  “c’era una fantastica,universale sensazione che qualunque cosa facessimo fosse giusta,che stessimo vincendo (...) sulle forze del vecchio e del male”, per concludere che “avevamo tutto lo slancio, cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda. E ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e guardare ad ovest e, con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell’acqua alta, quel punto dove alla fine l’onda si è infranta ed è tornata in dietro”, è evidente come gli autori abbiano fatto propria la prospettiva di Hunter S. Thompson. Infatti,questa parte, una delle più importanti del film, viene completamente ripresa dal romanzo, così come avviene per un altro momento, verso la fine, in cui Raoul Duke descrive gli hippie (quindi, in parte, “si descrive”) come “consumatori di acido patetici e appassionati che pensavano di comprarsi pace e comprensione 3 dollari la botta (...) una generazione di storpi permanenti, di cercatori falliti che non ha mai capito la vecchia, essenziale falsità della cultura dell’acido, la disperata supposizione che qualcuno, o almeno qualche forza, custodisse la luce al fondo del tunnel”. È questo un duro attacco alla cultura della droga che, vista come via alternativa e mistica alla felicità,aveva finito per ingannare milioni di persone, estraniandole dalla realtà4. A tal proposito è importante sottolineare come lo stesso Terry Gilliam, negli anni 60, sia stato un attivista del movimento studentesco americano e, quindi, quanto per lui risulti “autobiografico” il tema trattato dal romanzo. Inoltre, è da sottolineare come la scelta linguistica e narrativa di “riproporre” fedelmente il romanzo sia dovuta, anche, alla motivazione di raggiungere un pubblico affine a quello del libro, un pubblico, cioè, che apprezza uno stile innovativo e, a tratti, selvaggio,uno stile in cui delirio visivo e riflessione generazionale si muovono fianco a fianco.

Tra Storia collettiva e storia individuale

È interessante notare come, in un film come “Paura e delirio a Las Vegas”, vi sia un continuo intreccio  tra Storia collettiva e storia individuale,anzi di come quest’ultima finisca per chiamare in causa più volte la prima. Infatti, le “avventure” di Raoul Duke e Dottor Gonzo divengono il simbolo grottesco ed esasperato del naufragio dell’utopia hippie. A sancire il legame tra il “viaggio al centro del sogno americano” compiuto dai due personaggi e la fine del “flower power” sono i momenti di ricordo e di riflessione a cui si abbandona Raoul Duke, anche se l’inizio stesso del film, una sequenza di montaggio con immagini della guerra del Vietnam ed i manifestazioni dell’epoca, rimanda direttamente alla storia di un’intera generazione. Tra l’altro, l’espediente dell’immagini di repertorio usate a scopo denotativo viene ripreso in momento fondamentale della pellicola, “quella nervosa notte a Las Vegas” in cui Raoul Duke definisce la situazione sociale e politica della metà degli anni 60 “quel genere di apice che non tornerà mai più”, finendo per riconoscere, con tristezza e nostalgia, la sconfitta di un intero movimento. A fare da sfondo a queste riflessioni sono immagini di manifestazioni pacifiste e di concerti affollati, immagini che contrastano profondamente con il discorso pieno di amarezza portato avanti da Raoul Duke. Inoltre, e’ da notare come tutto ciò sia generato da un flash-back improvviso in cui il giornalista si rivede giovane, ricordandosi di come tutto fosse diverso nel 1965, anno che segnò l’inizio della diffusione dell’ideologia hippie . In questo modo la finzione (la ricostruzione della San Francisco del ’65, nella quale viveva Raoul Duke), ma anche la storia personale,e la Storia collettiva (le immagini di repertorio), convivono fianco a fianco, anzi si sovrappongono, generando un intreccio particolare riscontrabile in più punti del film.

Note

1.“Terry Gilliam – la fantasia al potere può cambiare la realtà” di Francesco Alò, Andrea Mi in “Amarcord – il lato oscuro del cinema” n° 16 gennaio – febbraio 1999.

2. Ecco alcuni esempi :

“- Incontro Alì – Frasier.

- La giusta fine degli anni 60. Alì battuto da un hamburger umano” oppure “Etere diabolico ti fa comportare come l’ubriacone del villaggio di un romanzo irlandese” o ancora “Il circo Bazooko è quello che tutto il mondo alla moda sarebbe se i nazisti avessero vinto la guerra. È il sesto reich”.

3. Vedi nota 1.

4. A tal proposito, Terry Gilliam, nella già citata intervista apparsa su “Amarcord”, dice “(...) È un discorso molto interessante perché non si limita a parlare delle droghe e dei loro effetti ma di responsabilità individuali (...) si contesta l’idea che molti ragazzi avevano all’epoca, cioè che si potesse comprare la saggezza, si potesse comprare la comprensione, si potesse comprare l’esperienza” e ancora “È la dura risposta a tutti quelli che pensavano ci potesse essere qualcuno o qualcosa che li potesse prendere per mano e guidare verso la luce in fondo al tunnel. Non c’è nessuno tranne noi. Noi siamo gli unici responsabili del nostro agire, perciò diamoci da fare”.

Bibliografia

“Paura e disgusto a Las Vegas” di Hunter S. Thompson.

“Cuore di tenebra” di Joseph Conrad.

Filmografia

“Paura e delirio a Las Vegas” 1998; Usa; interpreti: Johnny Depp, Benicio del Toro, Ellen Barkin, Craig Bierko, Gary Busey, Cameron Diaz, Flea, Mark Harmon, Katherine Helmond, Michael Jeter, Lyle Lovett, Tobey Maguire, Chris Meloni, Christina Ricci, Harry Dean Stanton, Tim Thomerson; sceneggiatura: Terry Gilliam, Tony Grisoni, Tod Davies, Alex Cox; direttore della fotografia: Nicola Pecorini; montaggio: Lesley Walker; prodotto da Laila Nabulsi, Patrick Cassavetti, Stephen Nemeth; diretto da  Terry Gilliam.

“Apocalypse now” 1979; Usa; interpreti :Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Frederic Forrest, Albert Hall, Sam Bottoms, Larry Fishburne, Dennis Hopper; sceneggiatura: Francis Ford Coppola, John Milius; direttore della fotografia: Vittorio Storaro; montaggio: Richard Marks; prodotto e diretto da Francis Ford Coppola.